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L’inchiesta – Calo nelle vaccinazioni influenzali: di chi è la responsabilità?

Alessandra Fabretti per Famiglia Cristiana

 

Torna l’autunno col freddo e i classici malanni stagionali. Subito riparte la campagna di vaccinazione antinfluenzale, e con essa il dibattito sull’efficacia di una pratica che, negli ultimi anni, ha sollevato numerosi polveroni mediatici ma- soprattutto- dubbi tra i cittadini. A dimostrarlo, è il generale calo del consenso: a partire dal 2009 (l’anno della “pandemia suina”) il numero di persone che hanno accettato l’iniezione è sceso in modo costante. Nella scorsa stagione influenzale si è raggiunta quota -30%: ossia, 3 persone su 10 dicono ‘no’. Fatto che mette in allarme i medici e il Sistema Sanitario, al punto che il ministero della Salute ha previsto per la prossima campagna un programma di sensibilizzazione molto articolato.

Certamente si tratta di un argomento delicato e difficile, che va a toccare un bene estremamente importante: la salute del singolo e, quindi, quella della collettività.

Tuttavia, dalle modalità con le quali tale campagna viene condotta emergono delle incongruenze che permettono di capire meglio il motivo di questo calo di fiducia repentino e generalizzato. L’uso improprio di termini, dati statistici, denaro pubblico e segnalazioni (provenienti da medici e/o cittadini riguardanti gli eventi avversi connessi ai vaccini) stanno danneggiando la reputazione di questa pratica.

Questa inchiesta cerca di chiarire i diversi aspetti: dedica un articolo per ogni “nodo” della questione, con l’obiettivo di informare e soprattutto stimolare una presa di coscienza da parte dei responsabili della sanità pubblica, e aiutare il lettore a non essere uno spettatore passivo della vicenda.

È del 4 settembre scorso l’articolo pubblicato sul sito web della Federazione Italiana Medici di Famiglia (Fimmg), nel quale il dott. Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e direttore dell’Osservatorio Influenza, avverte che a causa del ceppo influenzale di questa stagione: «Due o tremila persone potrebbero morire». Eppure, le morti per influenza registrate lo scorso  anno sono state 163.

Questo numero è contenuto nel Flunews(1) di aprile 2015, a conclusione della stagione influenzale. Periodo nel quale, cioè, si tirano le somme. Sempre Pregliasco lo scorso ottobre 2014 affermava che le morti sarebbero state addirittura 8 mila, come nell’ anno precedente. Smentito anche in quel caso dallo studio Flunews proprio dell’aprile precedente: 16. Certo, in un anno, l’incremento è stato notevole. Ma le cifre 16 e 163 si tengono ancora ben lontane da 2-3mila e 8mila. 

Un altro studio merita attenzione: si tratta del rapporto n.153 del 10 settembre 2015 dell’Eurostat (l’Istituto di Statistica europeo, con sede a Lussemburgo) nel quale sono riportati i casi di morte nei Paesi dell’Unione Europea per malattie legate all’apparato respiratorio registrate nel 2012: 670 mila casi (su una popolazione di oltre 500 milioni). Tra questi, solo lo 0,3% è riconducibile ai virus dell’influenza, ossia 2.286 persone. Impossibile però pensare che il dott. Pregliasco, quando parlava di «due o tremila morti» intendesse i decessi registrati nei 28 paesi dell’Unione europea, dato che più volte ha affermato che questo dato era riferito proprio all’Italia.

Così come anche altri suoi colleghi: a ribadirlo ad aprile, ad esempio, quando era ormai chiaro che la campagna vaccinale 2014-2015 fosse fallita, è stato Walter Ricciardi, commissario straordinario dell’Istituto Superiore di Sanità (e proprio di recente nominato presidente dell’ISS dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin). Ricciardi rilasciò una dichiarazione che è rimbalzata su numerosi giornali ed emittenti nazionali: «Stiamo facendo uno studio per valutare gli effetti del calo delle vaccinazioni, ma i risultati preliminari ci dicono che un eccesso di mortalità c’è stato: oltre agli 8 mila morti che sono la norma ogni anno, ce ne sono state alcune centinaia in più». 

Come abbiamo già visto, i decessi accertati sono stati 163. La cifra “8 mila” invece è presto spiegata: si tratta di un dato messo a disposizione dall’Istat, e che consiste nella somma delle morti per influenza e polmonite. Ma lo spiegheremo più avanti con l’aiuto di un’infografica, perché bisogna precisare un aspetto in più. Il concetto di ILI.

Oltre alla confusione comunicativa che riguarda i numeri, infatti, anche le parole vengono impiegate male. Si sente parlare di “influenza”, ma è importante specificare che i ceppi influenzali sono tanti. Quelli che ogni anno raggiungono il nostro emisfero, aggiungendosi a quelli già abitualmente presenti, sono almeno 4, dei quali solo 3 sono contenuti nel vaccino stagionale. Il vaccino dunque non è in grado di garantire protezione da tutte le ‘influenze’. 

Un’altra distinzione opportuna da fare è quella tra “l’influenza” e le “sindromi influenzali”, che in ambiente medico sono indicate con l’acronimo ILI (Influenza like-illness), ossia tutte quelle condizioni che presentano gli stessi sintomi dell’influenza, ma non sono influenza. Come ad esempio faringiti, laringiti, semplici raffreddori che danno febbre, dolenzie diffuse, tosse o mal di gola: disturbi che il vaccino non può evitare. Nonostante questo, le segnalazioni che vengono periodicamente raccolte (e che coinfluiscono poi nel bollettino Flunews) non distinguono numericamente le influenze dalle ILI. Cioè, nel contenitore ‘influenze’ si fanno rientrare anche le sindromi influenzali. Distorcendo così un dato che, naturalmente, si presenterà molto più alto di come è realmente. Facciamo alcuni esempi.

Nel rapporto sull’influenza n. 223 del 17 novembre 2014, il ministero della Salute afferma che dei 31.820 ammalati analizzati dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), solo 1.318 avevano contratto un virus influenzale. In Italia, la percentuale era stata del 23% (2,3 persone su 10 ammalati). Nella precedente stagione 2012/2013, il 39% (circa 4 persone su 10 ammalati).

Il fatto di “mescolare” i casi di influenza con quelli di sindromi simil-influenzali non è un errore, ma una procedura chiaramente prevista dal “Protocollo operativo di sorveglianza”, quel documento redatto da ministero della Salute, Istituto Superiore di Sanità e Centro Interuniversitario di Ricerca sull’ Influenza e le altre Infezioni Trasmissibili (CIRI-IT) con cui si indicano a medici di famiglia e pediatri le modalità con cui “tenere il conto” della diffusione del morbo dal punto di vista epidemiologico (quanto e come la malattia si diffonde tra la popolazione), e solo dopo dal punto di vista virologico (lo studio dei virus responsabili della malattia).

In quello di quest’anno, pubblicato l’8 ottobre scorso, si legge che «i casi di sindrome influenzale segnalati settimanalmente continuano ad essere aggregati secondo le classi di età previste nella precedente stagione influenzale». Quindi, per monitorare quante persone si ammalano, e soprattutto se contraggono il morbo dell’influenza, si esortano i medici a notificare secondo le classi di età, senza che però questi possano fare distinzione alcuna nell’ampio spettro delle ILI. Poi una parte di questi viene analizzata dal punto di vista virologico, con i risultati che abbiamo sopra richiamato.

Il fatto che vengano ampiamente diffusi dati diversi ed accomunati determina quel dubbio che può compromettere le buone intenzioni dei responsabili della sanità pubblica. Il fine, infatti, non necessariamente giustifica i mezzi: gonfiare numeri e statistiche con l’obiettivo di convincere le persone dell’importanza di vaccinarsi non è una buona strada, al punto che persino la Corte dei Conti ha duramente contestato con un parere emesso nel 2010, i costi (anche economici) dell’allarmismo creato dagli organi sanitari rispetto alla diffusione del virus influenzale A-H1N1 (la più comunemente nota “pandemia suina”):

«A pericolo ormai scongiurato, sarebbe facile trarre conclusioni semplicistiche e per certi versi scontate, sulla sostanziale inutilità delle costose misure poste in atto per affrontare un pericolo di fatto rivelatosi inesistente e, quindi, sarebbe fin troppo ingeneroso criticare le scelte effettuate sotto una comprensibile pressione psicologica. Non possono essere, tuttavia, taciute o sottovalutate le molteplici perplessità che hanno animato la sua storia, anche quando i timori apparivano reali e concreti, seppure inseriti in un clima da subito apparso, ad una visione oggettivamente più disincantata, fin troppo allarmistico ed indirizzato».

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